Doppia Poltrona

ATTUALITA’ – POLITICI PIGLIATUTTO / Sono sindaci. Amministratori delegati di aziende e società. Presidenti di fondazioni. E pure parlamentari. Così cumulano gli incarichi. E gli stipendi. Anche se la legge lo vieta.

Roberto Castelli

Mentre la maggioranza degli italiani fatica a tenersi un posto di lavoro, o a trovarlo, in quell’universo parallelo che è la nostra politica se ne accumulano spesso e volentieri più di uno, impilandoli come titoli nobiliari alla corte di Carlo V. Così c’è l’onorevole che è assessore qui, consigliere lì, e amministratore delegato là. Intanto fioccano i conflitti d’interessi di chi usa l’incarico locale per fare carriera a Roma, e viceversa. Mentre gli stipendi si sommano. Anche laddove non si potrebbe. C’è infatti una legge dimenticata, ma tuttora in vigore, che vieta espressamente a qualsiasi parlamentare di intascare un secondo stipendio: che sia di ministro, che sia di sindaco, di presidente di provincia e di società che fanno affari con o grazie allo Stato e agli enti locali. Tanto che il presidente della Camera Gianfranco Fini ha sbottato: “Stiamo superando il limite della decenza. I doppi incarichi abusano della fiducia degli italiani, che non hanno l’anello al naso”.

A dire il vero, l’anello al naso, in particolare, non ce l’hanno neanche i veneziani. Eppure l’onorevole ministro fantuttone Renato Brunetta, quando si rivolge a loro da candidato sindaco, non lesina promesse. Come nel suo programma elettorale, ‘La Grande Venezia’, dove dei 25 miliardi di investimenti che assicura, buona parte proverrebbe da fondi statali. Soldi che in teoria dovrebbero arrivare indipendentemente dal colore politico di chi siede a Ca’ Farsetti. Ma che Brunetta si rivende perché “ho tutto il governo a portata di mano”. E a conferma di ciò prepara la passerella per amici e colleghi pronti ad accorrere in suo aiuto: “Vi porterò il ministro Scajola. Verrà anche il ministro Maroni, per parlare di sicurezza, poi Matteoli per le infrastrutture, la Prestigiacomo per Marghera, La Russa per l’Arsenale, Alfano per la Città della Giustizia, Bondi per la Biennale”. Gran finale, ovviamente, con Silvio Berlusconi. L’uso elettorale del grado governativo accomuna Brunetta a

 

Roberto Castelli, viceministro alle Infrastrutture. Con ingegneristica precisione, lo scorso novembre ha ‘costretto’ il Cipe (rubinetto dei fondi pubblici) a sbloccare 130 milioni per la costruzione della Lecco-Bergamo. Dopo neanche due mesi, a sorpresa, il leghista si candida a sindaco lecchese. Mettendo bene in chiaro, però, che a lasciare la sua carica ministeriale non ci pensa proprio, perché “stiamo gestendo 12 miliardi di euro per l’Expo”.

Non c’è solo Brunetta a sapere come fare squadra sul territorio. In realtà, in Parlamento si concentra un vero e proprio pacchetto di mischia tutto lombardo che sta giocando la partita dell’Expo 2015. Si spiega così l’emendamento-meta trionfalmente segnato durante il passaggio al Senato del milleproroghe, che permette alla società Expo 2015 di “avvalersi degli enti fieristici, senza scopo di lucro, con sede in Lombardia e operativi a livello regionale”. Per capire come sia stato segnato quel punto, e quanto valga, bisogna ripercorrere uno per uno i componenti del pacchetto rugbistico. In prima linea c’è Lucio Stanca, ad di Expo 2015 (e pure vicepresidente) nonché deputato, anche se i colleghi in aula lo incontrano una volta su due: il doppio incarico evidentemente lo tiene occupato altrove. Dall’altra ci sono i ‘piloni’: tutti gli uomini della Fiera. Il senatore berlusconiano Gianpiero Cantoni è presidente della Fondazione, la cassaforte che contiene l’ente Fiera e il suo fratello minore, Sviluppo Sistema Fiera. Il cui presidente è Marco Reguzzoni, deputato leghista. Infine, dentro l’ente troviamo Fiera Milano Congressi, il cui ad è l’onorevole Maurizio Lupi, astro nascente ciellino della politica milanese (insieme a Cantoni, membro dell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà). Un bel gioco di squadra fra berlusconiani, ciellini e leghisti, alla faccia del conflitto d’interessi. ‘Compatibili’ tutti, nel doppio incarico, semplicemente perché la legge è rimasta ai tempi in cui gli enti fiera non erano quei centri di potere che sono oggi. Risultato? “La novità”, spiega Marilena Adamo, senatrice meneghina del Pd, “è che ora l’Expo 2015, vincolata alle procedure di evidenza pubblica, potrà utilizzare ente Fiera e controllate, che invece non sono affatto tenute a questo vincolo. Dire che il tutto è poco trasparente è un grazioso eufemismo”.

C’è poi chi fa del suo collegio elettorale un feudo, da proteggere e foraggiare. Soprattutto prima delle elezioni. È il caso di Altero Matteoli, toscano di Cecina, senatore Pdl, ministro dei Trasporti, e contemporaneamente sindaco di Orbetello. Solo grazie al suo intervento, qualche giorno fa, Trenitalia ha ripristinato la fermata Eurostar di Cecina, soppressa prima di Natale assieme ad altre stazioni della bassa Toscana. Un ‘salvataggio’, sì, ma ai danni di altri pendolari, come ad esempio quelli di Follonica (che purtroppo santi in Parlamento non ne hanno). La crociata salva-stazioni di Matteoli è però cosa antica. Già la scorsa estate intimava alle Ferrovie il ripristino di alcune fermate cassate. Quali? Orbetello e Cecina, naturalmente. Ma il vero asso nella manica dell’ex colonnello di An si chiama Tirrenica, l’autostrada che dovrà collegare Livorno a Civitavecchia (oggi congiunte solo dall’Aurelia) via Orbetello. Nell’aprile 2006, quando era ministro dell’Ambiente nel precedente governo Berlusconi, a poche settimane dalle elezioni diede il via libera alla Valutazione d’impatto ambientale. Di lì a poco sarebbe stato rieletto parlamentare e primo cittadino di Orbetello. Col governo Prodi il progetto va in letargo, per poi d’incanto sbloccarsi negli ultimi mesi. Nell’imminenza delle regionali, infatti, il ministro (stavolta dei Trasporti) ha inaugurato il primo cantiere, con le ruspe che hanno cominciato a scavare nel tratto da Rosignano alla ‘sua’ Cecina.

 

 


Il parco-voti si può coltivare anche attraverso un’altra infrastruttura molto local: l’aeroporto. Il senatore Pdl Vincenzo Speziali è anche nel cda di Sacal, la società che gestisce lo scalo di Lamezia Terme. Lo scorso marzo lo si vedeva sorridere davanti ai fotografi per la concessione quarantennale appena ‘ottenuta’ grazie alla firma dei colleghi di partito Tremonti e Matteoli. Un conflitto d’interessi che la giunta delle elezioni del Senato non ha reputato troppo grave, nonostante la legge dichiari incompatibile chi dal Parlamento gestisce società che operano grazie a una concessione statale. Del resto c’è un precedente ancora più clamoroso nella scorsa legislatura: quello diPietro Fuda, senatore del Partito democratico meridionale. Che addirittura rivendicava le ‘sinergie’ fra il suo ruolo da parlamentare e quello di amministratore unico di Sogas, azienda che gestisce l’aeroporto di Reggio Calabria: “Se devo sollecitare una pratica, da senatore il nullaosta mi arriva 10 giorni prima”. Può stare tranquillo quindi Giacomo Terranova, onorevole pidiellino e ad di Gesap, società che porta avanti lo scalo palermitano di Punta Raisi.

Ma il conflitto d’interessi dei tre politici meridionali è poca cosa in confronto a quello di Alfredo Messina, senatore forzista e soprattutto consigliere d’amministrazione di Mediaset. Ossia di una holding che controlla al cento per cento Rti, la concessionaria del Biscione che manda in onda Canale 5, Italia 1 e Retequattro. Anche in questo caso la giunta delle elezioni ha salvato il senatore, sulla scorta di un (discutibile) principio: è consigliere di Mediaset e non di Rti. “È inammissibile: così si crea il precedente per cui chiunque abbia un conflitto d’interessi può facilmente aggirarlo schermandosi dietro a una società-scatola vuota”, denuncia il democratico Francesco Sanna. Il cavillo formale però aiuta anche qualcuno del suo partito: il deputato Matteo Colaninno, ad di Omniaholding. Ossia la cassaforte di famiglia dei Colaninno, che a cascata controlla anche Alitalia, un anno fa acquistata a prezzi di saldo dal ministero del tesoro.

Tutti i parlamentari-sindaci o presidenti di provincia che affollano le nostre aule portano fiori sull’altare di ‘San’ Diego Cammarata (sindaco di Palermo e deputato nel 2001-2006). Prima di lui, infatti, le cariche di sindaco e di parlamentare non andavano d’accordo tra loro, pena l’ineleggibilità. Poi il ‘miracolo’ della compatibilità nel 2002, suggellato, fra gli altri, dall’allora onorevole Vincenzo Nespoli e dalla maggioranza di destra della vecchia giunta delle elezioni. Cui poi la decisione è tornata utile: nel 2008 in una botta sola Nespoli è infatti tornato in Parlamento, e insieme eletto sindaco di Afragola. Da allora l’eccezione è quasi diventata regola, e proliferano i casi in cui il primo cittadino di una città di oltre 20mila abitanti siede anche in Parlamento. È facile, basta seguire la trafila: se sei sindaco, per poterti candidare devi dimetterti 180 giorni prima dello scioglimento naturale delle Camere. Questo onde evitare ‘indebite influenze’. Se sei parlamentare, invece, delle ‘indebite influenze’ non gliene frega niente a nessuno, e puoi fare come vuoi. I ‘figli’ di Cammarata sono creature strane, bicefale o tricefale, a volte schizofreniche. C’èAntonio Azzollini, che alla vigilia delle ultime politiche sedeva tranquillo sulla poltrona del primo cittadino di Molfetta. Ma siccome ci teneva anche a quella di Palazzo Madama, si è dimesso da sindaco per candidarsi contemporaneamente al Senato, e di nuovo (con successo) al Comune. Risultato: due poltrone per uno. Poi c’è lo strano caso di Brescia, dove il dem Paolo Corsini nel 2008 si era dimesso da sindaco per tornare alla Camera. Ma avendo calcolato male i tempi del suo salto da una poltrona all’altra, oggi si ritrova col primato di unico parlamentare dichiarato ‘ineleggibile’ dalla Giunta delle elezioni. Opposta la condizione del suo ‘gemello diverso’, l’onorevole pidiellino Adriano Paroli, che oggi siede alla Camera e al Comune di Brescia, proprio perché i due scranni li aveva conquistati contemporaneamente nel 2008. Infine, per restare nel bresciano, come dimenticare il bulimico leghista Daniele Molgora: deputato, presidente delle Provincia di Brescia e sottosegretario all’Economia. O la collega padana Rosy Mauro, senatrice di lotta e di governo. Un giorno vota la fiducia al governo, e l’altro difende dal governo i diritti dei lavoratori iscritti al suo Sin.Pa (il sindacato del Carroccio). A Sud spicca Luigi Cesaro (Pdl) che si divide tra Camera e guida della Provincia di Napoli, dove gestirà il sistema dei rifiuti nella metropoli più caotica.

Doppia carica per tanti significa anche doppio stipendio. Ma la legge dice tutt’altro. Una norma del 1965, tuttora in vigore, vieta categoricamente a tutti i parlamentari di sommare al salario di Montecitorio e Palazzo Madama altri compensi “derivanti da incarichi di carattere amministrativo, conferiti dallo Stato, da enti pubblici, da banche di diritto pubblico, da enti privati concessionari di pubblici servizi, da enti privati con azionariato statale e da enti privati aventi rapporti di affari con lo Stato, le Regioni, le Province ed i Comuni”. Legge tuttavia dimenticata persino dalla Corte dei conti, dal Tesoro e dagli Interni (in tre pareri diversi). Tant’è cheMonica Faenzi, parlamentare e sindaco di Castiglione della Pescaia (candidata alla regione Toscana per il centrodestra) ogni 27 del mese se la ride. Dopotutto aveva lottato tanto per sommare ai 13 mila euro di Montecitorio quel pugno di (duemila) euro in più. Del resto, “chi lavora dev’essere pagato”, reclamava. Una dura lotta è anche quella di Stanca, che alle obiezioni di quelli che, nella Giunta delle elezioni, gli rammentavano i 450 mila euro per i suoi incarichi in Expo, rispondeva, racconta sorridendo uno dei presenti, “la legge del ’65 parla di assegni. A me i soldi arrivano col bonifico”.

(L’Espresso, 19/2/2010)