Regole d’ingaggio del cittadino. Rischi (e istruzioni per la sopravvivenza). Secondo un penalista e un poliziotto

Stefano Pitrelli, L’Huffington Post

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I colpi d’arma da fuoco sparati da Graziano Stacchio — il benzinaio veneto che martedì sera avrebbe ferito in maniera mortale uno dei rapinatori della gioielleria di Ponte di Nanto — tornano a sollevare in maniera concreta un particolare aspetto della questione sicurezza in questo Paese: quali sono le cosiddette “regole d’ingaggio” per un cittadino che si ritrovi testimone d’un crimine in corso, e intenda reagire? Dove finisce la legittima difesa, e quando comincia l’eccesso?

In Veneto, dove il problema delle rapine ai negozi e dei furti in casa è particolarmente sentito, e la popolazione tende a mostrarsi tutt’altro che passiva, politica e istituzioni sembrano apprezzare — trasversalmente — il comportamento di Stacchio: basti ascoltare il governatore Luca Zaia, secondo il quale “le azioni di questo brav’uomo dovranno essere valutate prima di tutto con la legge non scritta del buon senso”, e Alessandra Moretti del Partito Democratico, sua prossima sfidante alla presidenza della regione: “Ormai è emergenza sicurezza. […] La risposta di qualsiasi persona impaurita e minacciata con dei fucili sarebbe stata la medesima”.

Fatto sta che le conseguenze di quei colpi sparati, oltre che sulla famiglia della vittima, peseranno anche sulla vita dello stesso benzinaio veneto, perché quali che siano le “leggi del buon senso”, il codice penale è tutta un’altra storia. La cronaca giudiziaria italiana induce piuttosto a supporre che — comunque vada — difficilmente Stacchio potrà non passare “nemmeno cinque minuti di problemi”, come auspicherebbe il segretario della Lega Nord Matteo Salvini.

Ed è per questa ragione che l’Huffington Post ha cercato di chiarire in modo non troppo tecnico — nei limiti del possibile — quali siano le “regole d’ingaggio”, e quali i rischi, per i cittadini italiani (lecitamente) armati. Siamo quindi andati a consultare due punti di vista di natura diversa, entrambi molto ben informati: il penalista e il poliziotto. Cioè in questo caso l’avvocato Luigi Scialla dell’omonimo studio legale romano e Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap (http://www.sap-nazionale.org).

Il penalista

Comunque vada, conferma l’avvocato Scialla, per l’uomo che si ritrova in mano una pistola fumante — dopo essersi difeso, o aver preso le difese di qualcuno — non sarà mai facile: “Un minimo da pagare ce l’avrà sempre, e fin da subito, perché non ho mai visto che non si facesse neanche un’iscrizione nel registro degli indagati. Poi magari la cosa si potrà anche risolvere ‘velocemente’, ma sarà sempre dopo alcuni mesi. E come diceva il grande giurista Francesco Carnelutti, l’attesa del processo è già di per sé una pena”. Ovviamente però, fra l’esser dichiarati innocenti e il venir trovati colpevoli, alla fine c’è una bella differenza. Dove sta quella differenza?

Il concetto fondamentale, chiarisce Scialla, è quello di “scongiurare un atto ingiusto ed attualmente pericoloso”. Dentro questa cornice, “chi ha agito per legittima difesa non è assolutamente punibile”. Ma la persona che reagisce in difesa di un proprio diritto, o a tutela di qualcun altro — premendo un grilletto o in qualsiasi altro modo — “deve essere costretta dalla necessità di farlo”, e non aver avuto alternative. La difesa, inoltre, dovrà essere proporzionata: “Cioè il valore del bene da proteggere deve essere proporzionato o equivalente al bene che si sacrifica con l’azione violenta”.

Quali sono allora gli errori che un cittadino tende a compiere, per quanto in buona fede, in situazioni borderline?

Come ci illustra l’avvocato Scialla, i casi di eccesso colposo del diritto di difesa (vedi art. 55 del codice penale) sono i seguenti:

1. [quando] non si usa particolare accortezza e quindi si agisce con negligenza (frettolosità, non approfondimento o scarsa conoscenza della vicenda);

2. quando nell’esercizio del diritto di difesa si è stati imprudenti o particolarmente incapaci (la legge penale parla di imperizia);

3. quando il fatto è commesso senza osservare le leggi, i regolamenti, gli ordini o le discipline in materia. Si pensi, in questo caso specifico, al possesso delle armi, all’uso delle stesse ed al porto in luogo pubblico che presuppone un’apposita licenza (porto d’armi).

Allora facciamo conto che questo nostro ipotetico cittadino, deciso a intervenire in difesa propria o di qualcun altro, si trovi nel giusto, mantenga il sangue freddo, e riesca a non compiere neanche una ‘mossa sbagliata’.

Dove si annida il rischio che una persona che ha rispettato tutti questi criteri finisca comunque per passare i guai?

“Sta tutto nella prima valutazione che fa il magistrato inquirente”, risponde Scialla: “E se non ci sono evidenti tracce di un errore, di un eccesso, di qualcosa che determini una colpa, il Pubblico Ministero non deve intraprendere un’azione penale. Questa infatti è obbligatoria solo in presenza di un reato, o di elementi minimi di colpevolezza. Per la precisione, soltanto in presenza di una notitia criminis. Parlare di ‘atto dovuto’, invece, a volte è un po’ uno schermo, una forma di prudenza, lo si fa per non sbagliare. Ma così vai a incidere nella sfera privata di chi si è adoperato per il prossimo”.

Il poliziotto

“I limiti posti dalla legge [all’autodifesa] sono talmente rigidi che alla fine la norma si ritorce contro chi dovrebbe servire”. È aspro il giudizio di Gianni Tonelli, segretario Sap, che si mette nei panni del cittadino ipotetico in questione: “Uno deve sempre verificare la proporzionalità, ma quando si è aggrediti non è semplice. Come a volte non lo è distinguere nella penombra una pistola vera da una giocattolo. Ma se la minaccia è concreta, e reagire è l’unico strumento per fermare la persona, se quella è l’ultima risorsa io mi devo difendere, soprattutto se si attenta all’incolumità”.

A fare la differenza, osserva Tonelli, sarebbe una maggiore preparazione fisica e psicologica di chi impugna un’arma da fuoco per difendersi/difendere: “Cosa impossibile da ottenere per la detenzione, ma fattibile per il porto d’armi. E a proposito di questi ultimi, personalmente sarei più elastico nel concederli, ma più rigido nel verificarne i requisiti. Si pensi che c’è chi ha subito oltre dieci rapine e non se lo vede concedere”.

Il punto, argomenta il sindacalista di polizia, è che “bisogna avere duttilità con l’arma, bisogna aver fatto delle simulazioni. Se hai un’arma da fuoco in mano e ti fai prendere dal panico nel momento in cui va utilizzata, non sarai in grado di adoperarla con la dovuta parsimonia. Una maggiore preparazione ci vorrebbe anche per gli stessi operatori delle forze dell’ordine: come si è visto in Francia, anche degli agenti di polizia che dovrebbero essere preparati, quando arriva il momento, possono bloccarsi”.

Al segretario del Sap abbiamo chiesto di esporre qualche caso accademico, ma realistico, in cui ritiene che una reazione di difesa/autodifesa sia “legittima” — indipendentemente dal fatto che questa avvenga impugnando un’arma vera e propria o un qualsiasi altro strumento adoperato al medesimo fine. La casistica presentata da Tonelli ovviamente non aspira ad essere completa o esaustiva, ma solo a fornire un’idea delle situazioni-tipo, in nessun particolare ordine di gravità o importanza.
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Caso A / Quando l’aggressore, indipendentemente dall’arma o dallo strumento adoperato per causare danno (anche un semplice bastone può far male e uccidere), prende di mira dei punti vitali del tuo corpo.

Caso B / Quando l’aggressore punta la canna di un’arma da fuoco contro di te, o una terza persona.

Caso C / Quando l’aggressore proferisce una minaccia di morte, supportata dalla presenza di un’arma.

Caso D / In un vicolo cieco, estraendo ad esempio un coltello, anche senza proferire parola.

Caso E / Quando l’aggressore adopera il proprio veicolo per cercare di buttarti fuori strada.

Caso F / Quando un’aggressore di grossa corporatura s’appresta a colpirti, e ti rendi conto che un suo colpo, anche a mani nude, sarebbe in grado di ucciderti o arrecarti danni permanenti.

Caso G / Quando ti svegli di notte, ti accorgi che tua moglie è al tuo fianco e ad aggirarsi nella penombra è un estraneo. “Di casi di persone soffocate o sottoposte a violenze in situazioni simili ce ne sono tanti. Qui la legge prevede che io possa utilizzare un’arma perché si presume che questi rappresenti un pericolo, e se perdo tempo gli regalo quello di ammazzarmi. Diverso il caso se il ladro sta ancora provando a entrare, a quel punto posso semplicemente urlare e tentare di mandarlo via”.

Caso H / Quando un’aggressore ha aperto il fuoco su di te. “A quel punto è chiarissimo, tanto più se magari ti ferisce”.___________________________________________________________

Un discorso a parte lo richiede un esempio più elaborato, un “classico caso di scuola”. Mettiamo che ci troviamo davanti la scena di uno stupro, ipotizza Tonelli. Che cosa succede a quel punto?___________________________________________________________

T1 / Senti urlare la vittima…

T2 / …e decidi d’intervenire, stando pure attento a colpire lo stupratore in maniera da dissuaderlo da ciò che sta facendo, ma non da ucciderlo.

Qui si ferma il codice penale, spiega Tonelli, che era anche partito bene. La storia però difficilmente finisce qui:

T3 / Sei consapevole che ti trovi in quella situazione e dovrai tener presente che una persona che ha avuto il ‘coraggio’ di stuprare qualcuno avrà il ‘coraggio’ di fare di tutto, anche perché a quel punto verrà assalito dal panico sentendosi chiamato a rispondere della sua violenza. Quindi magari reagirà in maniera ancor più grave. E sarai tu a scontarne le conseguenze.___________________________________________________________

Quindi, conclude Tonelli, “noi sappiamo che, se decidiamo d’agire, verremo chiamati a scontare il nostro intervento. Ed è così che a volte l’autodifesa, nata a tutela delle vittime, finisce per ritorcersi contro di noi. Da una parte bisogna stare attentissimi perché non bisogna fare del Far West, e anche il mascalzone va tutelato. Dall’altra questa logica mostra tutti i suoi limiti”. Un esempio su tutti, il famoso “colpo in aria d’avvertimento”, di cui i profani avranno sentito certamente parlare come lecito strumento di dissuasione. Un mito che Tonelli sfata: “Chiaro che lo si fa per cercare di non dover arrivare all’extrema ratio. Ma non è codificato. E nelle armi funziona un po’ così: o un determinato comportamento è esplicitamente autorizzato, o è vietato. E il colpo in aria non è previsto”, è codificato solo nelle consegne che hanno i militari. Per i civili, invece, è “quasi illegittimo”.