La finanza ha il vizio del fumo

Stefano Pitrelli, L’Espresso & Tabaccologia

La finanza ha il vizio del fumoINCHIESTA / Sono in crescita gli azionisti che corteggiano le bionde: dalle banche alle assicurazioni aumenta il numero di chi investe sul

mercato del tabacco. Alla faccia dei decreti di Balduzzi. 

Banche, assicurazioni e società di risparmio gestito fra le più importanti del nostro paese guardano alla sigaretta, soprattutto in tempo di crisi, come a un bene rifugio. I privati ci guadagnano, e lo Stato pure: il giro d’affari generato in Italia dalle vendite dei prodotti a base di tabacco è stimato nel 2011 a circa 19 miliardi di euro, di cui 14 miliardi di entrate fiscali. Ma per gli investitori-fumatori non c’è controindicazione: alla salute dei loro portafogli azionari puntare sulla stecca non può che fare bene. La fila di broker col cedolino in mano viene fotografata da una tabella realizzata dalla Thomson Reuters per l’Espresso. Dalla tabella salta agli occhi il tabagismo silenzioso di una buona parte della nostra finanza. Silenzioso forse perché politicamente controverso, come ha dimostrato il ministro Renato Balduzzi con le sue multe da duemila euro per i tabaccai che vendono ai minori. Quanti però di quei risparmiatori italiani che s’arrabbierebbero sorprendendo un figlio a fumare ignorano di avere azioni alla nicotina nel proprio bouquet?

I signori dei tabacchi

Sergio Marchionne lo ha capito da tempo, che una sigaretta è per sempre. Come noto, il manager canadese della Fiat siede nel board della Philip Morris, mentre sulla poltrona al suo fianco c’è Robert Polet, presidente della Safilo Group, i fabbricanti d’occhiali padovani. La Philip Morris è per l’appunto uno dei  grandi player che in Italia si spartisce il grosso del mercato, insieme a British American Tobacco, Japan Tobacco e Imperial Tobacco, monopolizzando non solo le abitudini dei fumatori italiani, ma anche l’attenzione degli azionisti che corteggiano le ‘bionde’.

Ma iniziamo dal mondo delle assicurazioni, che da un lato ti vendono polizze sulla vita, dall’altro investono in ciò che “nuoce gravemente alla salute”. Si parla di nomi del calibro di Gruppo Generali, nella cui galassia gravitano diverse società di risparmio gestito che scommettono sulle sigarette. Nel fondo “Anima Europa” di Anima Sgr, ad esempio, almeno fino agli inizi di settembre Bat si collocava fra i primi dieci titoli nel portafoglio (attualmente, ci tengono a sottolineare dall’azienda, il suo peso è inferiore all’1,5). La stessa Generali Asset Management investe in Philip Morris (fonte: PMI). E insieme a Generali, poi, troviamo i colleghi di Allianz.

Scorrendo la lista degli shareholder italiani si incontrano soprattutto banche di varia grandezza. A livello nazionale ci sono Unicredit e Intesa, Mediolanum e Banca Sella, Bnp Paribas, Ubi Banca e Bancoposta Fondi. «Noi collochiamo Philip Morris solo in misura minima – precisano anche da Bancoposta – e comunque facciamo solamente una gestione di fondo. La selezione di singoli titoli è un aspetto curato da Pioneer Investment».

 

 

Di banche “tabagiste”, infine, se ne trovano tante anche nelle realtà locali: Banco Desio e della Brianza, Banco Popolare, Carige, Credit Suisse, Gruppo Credito Emiliano e Banca Popolare dell’Emilia Romagna. Insomma, che tu sia cliente di una grande banca con filiali all’estero, correntista di un banco popolare, o che abbia un conto allo sportello dell’ufficio postale, con tutta probabilità il tuo promoter di fiducia ti offrirà una sigaretta con la stessa facilità con cui ti propone – ad esempio – Apple piuttosto che Coca-Cola. Per il semplice fatto che sugli scaffali del supermercato della finanza sono prodotti che stanno uno a fianco all’altro.

Caso curioso e a parte, è senza dubbio quello del Monte dei Paschi di Siena: una sua fiduciaria si limita ad amministrare (come rimarcano a Mps) il 50 per cento della proprietà di una fabbrica sarda di sigarette, la Safolla Srl. Con un brand che più local non si può, “S’Isula”, e un tabacco che però – come ha segnalato all’Antitrust il Movimento Difesa del Cittadino – di sardo al momento ha ben poco, essendo marchigiano.

Il barile, il lingotto e la stecca

 

Che le sigarette, oltre a “nuocere gravemente alla salute”, facciano bene a chi investe è un dato che salta agli occhi. Ce lo dice Jonathan Fell, analista di mercato della Deutsche Bank AG, motivandoci l’attrazione fatale delle multinazionali big tobacco: «La maggiore attrattiva esercitata da queste aziende sono evidentemente i guadagni: solidi, stabili e soprattutto costanti. Sì certo, si risente dell’influenza di quegli aspetti considerati “negativi”, cioè una maggiore consapevolezza dei danni del fumo da parte della gente e l’approvazione da parte dei singoli paesi di leggi contro il fumo più rigide. Ma la loro crescita è, e resta, una delle migliori sul mercato: l’8-9 per cento ogni anno, con in più dividendi del 4-5 per cento. E questo non cambierà nel lungo periodo». Quindi la stecca è un bene rifugio. «Certamente sì. La crisi incide anche qui, ma molto meno che negli altri business. La loro base dei profitti non ha fatto altro che aumentare in quarant’anni. E poi se si fuma di meno, possono sempre alzare il prezzo e guadagnarci comunque. Perché hanno il potere di farlo».

Il punto è chiarito ulteriormente da Silvia Tiezzi, visiting professor alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh, che studia proprio il consumo di beni particolari come il tabacco: «Da queste parti li chiamano “sin goods”, beni del peccato. Io mi occupo in particolare di ciò che dà dipendenza o formazione d’abitudine. E obiettivamente c’è un po’ di malizia, o quanto meno un eccesso di pragmatismo, da parte di chi investe in questo tipo di mercato. Chi punta sulle sigarette, infatti, sa bene che si tratta di beni che creano assuefazione, perché come per i bevitori, c’è uno zoccolo duro di fumatori che non viene per niente intaccato da alcun tipo di politica. Quindi se ci investi sai anche che il profitto magari potrà ridursi, ma non verrà mai annullato». Soprattutto in tempo di crisi.

Il rischio (non) fumo

Nonostante tutto, però, quando poi ascolti l’industria del tabacco, l’ottimismo degli analisti di settore sembra un po’ sfumare. Parola di Philip Morris Italia: «Negli ultimi anni il calo del volume di vendite di sigarette è stato di circa il 2 per cento annuo. E adesso, fra crisi, Iva e illecito, ha raggiunto il 7. Oltretutto la Commissione europea sembra puntare al pacchetto standard, anonimo nel formato e nella grafica, che evidentemente favorirà l’illecito. Oltre che al divieto d’esposizione nelle tabaccherie e alla proibizione di ingredienti necessari alle sigarette “American Blend”, le più diffuse in Europa. Questi provvedimenti colpiranno duramente ed esclusivamente la filiera del tabacco, che in Italia impiega più di 200 mila persone». Così, ancora una volta, in Italia rispunta il dilemma fra lavoro e salute.

(L’Espresso, 26/9/2012)