Seymour Hersh accusa Barack Obama: “Sulla morte di Osama Bin Laden ha mentito. Ecco tutte le bugie del Presidente” (FOTO)

Stefano Pitrelli, L’Huffington Post
OBAMA OSAMA

L’assalto dei Navy Seals alla “tana” di Osama bin Laden è una delle immagini più forti della presidenza Obama. Oggi, al tramonto del suo secondo mandato, un giornalista americano punta il dito su quella versione dei fatti, e cerca di smontarne il mito. “L’uccisione di Osama bin Laden” è un complesso saggio d’inchiesta di oltre diecimila parole scritto dal giornalista investigativo Seymour M. Hersh — premio Pulitzer nel 1970 per aver raccontato il massacro di My Lai in Vietnam — ed è stato pubblicato nel fine settimana dalla London Review of Books.

Ad esser preso in esame (e contestato) è tutto quanto accaduto prima, durante e dopo il momento (già) storico dell’individuazione ed eliminazione dello “sceicco del terrore”. Evento che, osservato alla luce di quanto riferito dalle tre principali fonti dell’autore — tutte anonime: un ex dirigente dei servizi americani e due consulenti dello Special Operations Commando — si presta a una lettura ben diversa da quell’eroica catarsi che i cittadini americani avevano atteso fin dall’undici settembre 2011.

Molto meno romantica, e decisamente più vicina una trama di John le Carré, fatta di corruzione, doppi giochi, tradimenti, ricatti e menzogne. Al lettore vengono posti dei dubbi sulla verità che all’epoca presentò la Casa Bianca. E domande alle quali — scrive Hersh — la Casa Bianca non ha ancora voluto rispondere. Ma la Casa Bianca intanto una sua risposta alla ricostruzione di Hersh l’ha fornita, e molto dura: “Ci sono troppe inaccuratezze e asserzioni senza costrutto in questo testo per contestarle una per una con il fact-checking”, ha dichiarato ai giornalisti il portavoce per la sicurezza nazionale Ned Price. Ma vediamo che cosa sostiene Hersh.

“Sono passati quattro anni da quando un gruppo di Navy Seals degli Stati Uniti ha assassinato Osama bin Laden durante un raid notturno in un compound circondato da alte mura e situato nella località vacanziera pakistana di Abbottabad. Quell’uccisione ha rappresentato uno dei momenti più importanti del primo mandato di Obama, nonché uno dei principali fattori che hanno contribuito alla sua rielezione. La Casa Bianca ancora sostiene che la missione sia stata gestita in toto dagli americani, e che i più alti ufficiali dell’esercito pakistano e della Inter-Services Intelligence (ISI) non siano preventivamente stati informati del raid. Questo è falso, così come tanti altri elementi del racconto fornito dall’amministrazione Obama. La storia, così com’è stata raccontata dalla Casa Bianca, avrebbe potuta scriverla Lewis Carroll [autore de Le Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, ndr]: davvero bin Laden, l’obiettivo di una gigantesca caccia all’uomo internazionale, avrebbe deciso che una cittadina a quaranta miglia da Islamabad sarebbe stata il luogo più sicuro in cui vivere, e dal quale guidare le operazioni di al Qaeda? Si stava nascondendo sotto la luce del sole. Così disse l’America”.

La “menzogna” numero uno, per Hersh, è il fatto che esercito e servizi pakistani non siano stati preventivamente informati, nonostante una “vasta quantità” di testimonianze vadano nella direzione opposta, inclusa una citata dal magazine del New York Times. Qui di seguito la versione dei fatti ricostruita da Hersh:

“Bin Laden era prigioniero del’ISI nel compound di Abbottabad già dal 2006; […] Kayan e Pasha [rispettivamente il capo di stato dell’esercito pakistano e il direttore dei servizi segreti] erano già a conoscenza del raid, e si erano assicurati che i due elicotteri che stavano portando i Seals ad Abbottabad riuscissero ad entrare nello spazio aereo pakistano senza destare allarmi; la CIA non ha scoperto dove fosse bin Laden pedinandone gli uomini […] ma da un ex alto ufficiale dell’intelligence pakistana, che ha svelato il segreto in cambio di una bella fetta dei venticinque milioni di ricompensa che erano stati offerti dagli Stati Uniti”.

Il segreto sarebbe stato questo: bin Laden era stato catturato dai pakistani dopo il 2006, fra i monti dell’Hindu Kush, dove viveva con alcune mogli e figli, tradito da alcuni abitanti del posto. Nel compound invece ci viveva da prigioniero ed era molto malato, tanto che veniva seguito da un medico militare.

“La verità è che bin Laden era un invalido, ma questo non possiamo dirlo”, dice l’ex dirigente dei servizi citato da Hersh, “Volete dire che avete sparato a uno storpio? Che stava per impugnare l’AK-47?” […]

Quella ricostruzione sarebbe solo servita ad evitare le polemiche sulla legalità del programma di omicidi mirati dell’amministrazione americana, secondo la quale se bin Laden si fosse immediatamente arreso, sarebbe stato catturato vivo. Quindi, stando ad Hersh, di vero nella versione ufficiale ci sarebbero solo due singole informazioni:

1 / il fatto che Obama abbia ordinato il raid, e 2 / il fatto che i Seal l’abbiano eseguito.

Come sarebbe cominciato tutto

Nell’agosto del 2010 un ex dirigente dei servizi pakistani (oggi consulente CIA a Washington) andò a bussare alla porta della CIA presso l’ambasciata americana di Islamabad, offrendosi di rivelare dove si trovasse bin Laden in cambio della cospicua ricompensa fissata da Washington nel 2001. Gli esperti inviati per sottoporlo alla macchina della verità avrebbero quindi comprovato la veridicità delle sue affermazioni, ma in un primo momento gli americani si guardarono dall’informarne i pakistani. Puntarono i satelliti sul compound e affittarono un’abitazione lì vicino come base: siccome la cittadina è meta di vacanze, nessuno avrebbe fatto caso al viavai.

Obama ne sarebbe stato informato solo a ottobre: “Non parlatemene più fin quando non avrete le prove che si tratti davvero di bin Laden”, avrebbe risposto, temendo di fare la fine di Jimmy Carter dopo la fallita liberazione degli ostaggi a Teheran. Ma siccome l’appoggio del presidente era fondamentale, si decise di “far salire a bordo i pakistani”. Non ci volle molto, osserva, anche perché il tutto s’innestava in quelli che erano già dei rapporti di reciproca utilità fra i servizi dei due paesi. Ai pakistani — scrive — premeva assicurarsi gli aiuti militari americani (che includevano limousine blindate, scorte armate e alloggi per i vertici dell’ISI) e gli incentivi sottobanco provenienti dai fondi neri del Pentagono.

“Nell’ambito dell’intelligence si sapeva bene che cosa serviva a convincere i pakistani — ci voleva una carota. E loro scelsero la carota. Rischi non ce n’erano. Adoperammo anche qualche ricatto. Gli comunicammo che avremmo divulgato la notizia che stavano tenendo bin Laden in casa loro. E sapevamo che i loro amici e nemici non avrebbero gradito”.

Il DNA per identificarlo al di là di ogni ragionevole dubbio venne fornito dal suo medico (che avrebbe quindi ottenuto una parte dei 25 milioni di dollari della ricompensa), ma a quel punto i pakistani s’impuntarono sul fatto che bin Laden doveva morire. L’accordo fu raggiunto nel gennaio del 2011, e una squadra Seal cominciò a prepararsi all’attacco in Nevada, dove il compound era stato ricostruito fino all’ultimo dettaglio, incluso il numero dei gradini delle scale. Nell’aprile 2011, spronato dal fatto che intanto gli americani avevano iniziato a “chiudere i rubinetti”, il direttore dell’ISI andò a bussare alla porta del suo omologo CIA, Leon Panetta, offrendogli la garanzia che la missione non avrebbe incontrato alcuna opposizione da parte del Pakistan, e spiegando a che cosa gli serviva tenere bin Laden prigioniero. Secondo la fonte principale di Hersh:

“L’ISI stava adoperando bin Laden come arma di dissuasione contro le attività dei talebani e di Al Qaeda in Afghanistan e in Pakistan. Li avevano minacciati dicendo che se avessero compiuto operazioni in contrasto cogli interessi dell’ISI, loro ci avrebbero consegnato bin Laden”.

Il piano (originale) 

La notizia del raid doveva essere diffusa solo dopo almeno una settimana. A quel punto avrebbero preparato una storia diversa: l’uccisione dello sceicco fra i monti dell’Hindu Kush, oltre il confine con l’Afghanistan. Così nessuno avrebbe menzionato gli accordi coi leader dell’esercito e dei servizi pakistani, entrambi preoccupati dalle possibili reazioni di coloro che in Pakistan vedevano bin Laden come un eroe.

Lo svolgimento (effettivo)

Al primo rumore d’elicottero gli uomini dell’ISI che sorvegliavano bin Laden, le mogli e i figli al compound se ne dovevano andare. In città c’era il blackout (ci aveva pensato l’ISI). Uno degli elicotteri Black Hawk si schiantò contro le mura del compound, e ci furono parecchi feriti. Il tempo a disposizione era già breve, perché in città si sarebbero svegliati tutti. Gli uomini delle forze speciali americane furono inoltre costretti a lanciare un paio di granate per far saltare in aria la strumentazione di bordo dell’elicottero schiantato, causando una serie di esplosioni, e delle fiamme che si sarebbero viste da lontano.

Cosa che — osserva la fonte di Hersh — non avrebbero certo fatto se non fossero stati sicuri che nessuno li avrebbe fermati. Per sostituire il Blackhawk fecero arrivare un altro elicottero — uno di due che erano stati fatti arrivare in zona per il rifornimento di carburante — ad Abbottabad, ma ci voleva tempo per prepararlo al trasporto truppe. Nonostante questi incidenti di percorso, i Seals si addentrarono nel compound, senza incontrare alcuna resistenza. Del resto le guardie dell’ISI se n’erano già andate da parecchio. I Seals fecero saltare le porte di metallo del primo e del secondo piano, e su per le scale fino agli appartamenti di bin Laden al terzo. Una delle mogli di bin Laden, che si era messa a strillare, fu ferita al ginocchio. Ma a parte i proiettili che raggiunsero lo sceicco, non furono sparati altri colpi. Osama si ritirò nella sua camera da letto. Due soldati lo inseguirono e aprirono il fuoco.

A omicidio compiuto i Seals restarono lì per venti minuti, senza fretta, in attesa che li venissero a prendere, illuminati solo dalle fiamme dell’elicottero precipitato. Così racconta Hersh.

L’incidente dell’elicottero era impossibile da nascondere, prosegue, quindi la Casa Bianca decise di fornire un’altra versione dei fatti rispetto a quella concordata coi pakistani. Ma la vanità — sostiene la fonte, che se ne sente evidentemente irritata — fece sì che tanti dettagli dell’operazione, spesso anche sbagliati, vennero diffusi: in pochi giorni le esagerazioni e le distorsioni si andavano accumulando, sostiene, anche se la stampa tendeva ad accettare gli errori come inevitabile conseguenza del tentativo di venire incontro alle frenetiche richieste di dettagli da parte dei giornalisti. Nel resto del suo saggio Hersh ricostruisce tutto questo processo, inclusa la storia del cadavere di bin Laden, che si sarebbe “risolta” con la soluzione — ideata dagli ufficiali della Marina— di un funerale in mare.

“Perfetto. Nessun cadavere. Un funerale onorevole secondo la legge della Sharia. La notizia del funerale venne resa pubblica con tanti dettagli, ma i documenti che l’avrebbero confermata vennero secretati per questioni di ‘sicurezza nazionale’. È il classico modo in cui una storia di copertura mal congegnata cade a pezzi — ti risolve un problema subito, ma alla prima occasione poi non c’è niente che la confermi. Non c’era mai stato alcun piano di portare il cadavere a bordo di un’imbarcazione, e non ci fu nessun funerale di bin Laden in mare”, sostiene la fonte di Hersh, secondo la quale probabilmente “del cadavere non c’era comunque rimasto molto”.

Obama, scrive Hersh, oggi non sta per affrontare una rielezione come nella primavera del 2011. Ma, conclude, “le menzogne ad alto livello restano tuttavia il modus operandi della politica americana, insieme alle prigioni segrete, agli attacchi dei droni, ai raid notturni delle forze speciali, alla mancanza di rispetto per la catena di comando, e al tagliar fuori coloro che invece potrebbero dire di no”.