Giulio e quel sogno di una Mediobanca del Sud (che al Sud però non serve)

CREDITO / Al lavoro il comitato promotore della Banca del Sud, la merchant bank tremontiana che con un euro ti potrai comprare in tabaccheria.


Che ci fanno allo stesso tavolo il ministro dell’economia e la sua corte, due nobili (Carlo di Borbone e Sforza Ruspoli), uno scienziato (Antonino Zichichi), un banchiere (Gerlando Genuardi, vicepresidente della Banca europea degli investimenti), il figlio di Cesare Romiti, più un’accozzaglia di lobbisti e affaristi di provincia? Semplice, è il comitato promotore della Banca del Sud, nuova creatura e vecchio sogno di Giulio Tremonti. Istituita per decreto all’interno della scorsa Finanziaria, è l’ennesima armata Brancaleone che costerà ai contribuenti italiani cinque milioni di euro – a tanto ammonta la benedizione iniziale del governo. La banca dovrebbe essere il motorino capace di innescare lo sviluppo del Meridione.Invece non è altro che un doppione di altri istituti ma soprattutto un “fattore” nella campagna elettorale del centrodestra.

Banca del Sud: cui prodest?

Se ci concentriamo sul profilo economico dell’impresa, ci accorgiamo ben presto di come Tremonti quei cinque milioni di finanziamento pubblico se li poteva anche risparmiare. Stando alle prime indiscrezioni, la futura Banca del Sud non sarà un istituto di credito nel senso classico del termine: non avrà sportelli, non raccoglierà il pubblico risparmio e non farà prestiti in via diretta. Sarà invece una merchant bank – sul modello Mediobanca o Morgan Stanley, per capirci – specializzata in servizi finanziari ad enti pubblici e piccole e medie imprese (pmi). Per i primi si occuperà di prestiti per la costruzione di infrastrutture, di finanziare gli interventi pubblici nell’economia e di project financing; tutti servizi che non prevedono un intervento diretto, piuttosto un’opera di organizzazione e raccordo di quelle banche che accetteranno di finanziare i progetti degli enti locali meridionali.Per le pmi, invece, farà consulenza finanziaria, pianificando e supportando eventuali collocazioni in borsa o il lancio di prestiti obbligazionari, senza dimenticare la volontà di dare un sostegno alle strategie di internazionalizzazione delle pmi. L’inutilità della Banca del Sud per lo sviluppo del Mezzogiorno è quindi in re ipsa. Soprattutto perché non svolgendo l’unica attività davvero proficua per l’Italia meridionale (i.e. la diretta raccolta di capitali e l’erogazione di prestiti) viene meramente a rappresentare un soggetto fornitore di servizi finanziari – e in quanto tale diventa, per enti locali e pmi, più un onere che un pozzo da cui drenare risorse. Del resto, se enti locali e pmi ne avessero bisogno potrebbero rivolgersi direttamente alle innumerevoli merchant bank già esistenti in Italia e soprattutto all’estero. Ma di solito le pmi hanno poco bisogno, per loro natura, di consulenze e strumenti finanziari sofisticati, mentre beneficerebbero maggiormente di capitali freschi, magari a buon mercato.E lo stesso discorso può estendersi agli enti locali.«Inattuale, non utile, spaiata»

Non a caso da quando il titolare dell’Economia ha reso noto il progetto, sono fioccate le prese di distanza e i giudizi negativi da parte del mondo produttivo italiano e meridionale in particolare.

Gli industriali si sono subito schierati contro. Ettore Artioli, vicepresidente di Confindustria delegato ai problemi del Mezzogiorno, ha definito la Banca del Sud «inattuale, non utile e spaiata rispetto alle logiche di mercato». Allo stesso modo è stata bocciata dall’Unione industriali di Napoli.

Contro anche il mondo bancario, per bocca del presidente dell’Abi, Maurizio Sella: «Non comprendiamo le motivazioni alla base della costituzione della Banca del Sud, gli istituti esistenti sono idonei, competitivi e impiegano nel Mezzogiorno più soldi di quanti ne raccolgono». Sfavorevoli anche i sindacati, dalla Cgil alla Ugl, passando per la Cisl. Infine contrari i consumatori: per Elio Lannutti, presidente dell’Adusbef, la Banca del Sud corre il rischio di essere «l’ennesimo carrozzone pubblico lottizzato».

Ma la bocciatura economica del nuovo istituto per il Mezzogiorno deriva anche da un rapporto sbilanciato fra costi e benefici. A fronte dei vantaggi (quasi inesistenti) per il meridione, la Banca del Sud dovrebbe dotarsi di importanti risorse finanziare per poter operare, sia per poter sostenere una struttura in cui lavorano team di specialisti ad alti livelli di professionalità che per far fronte all’acquisto di azioni o obbligazioni dei propri clienti. Ma da dove arriveranno questi soldi?

Chi ci mette i denari

Una risposta la dà Tremonti, ma non si capisce se si tratti più di una boutade, o della dichiarazione, seppur innegabilmente creativa, di un politico populista: «Penso ad azioni da un euro da vendere in tabaccheria, cosicché la gente del Sud possa comprarle». Certo è che pretendere di fondare una banca d’affari su di una raccolta popolare è un po’ come voler costruire il ponte sullo stretto elemosinando a piazza San Pietro. Soldi veri, piuttosto, potrebbero arrivare da qualche personaggio del comitato promotore. E in particolare dal ticket Genuardi-Enrico Vinci: il primo vicepresidente della Bei, il secondo a lungo segretario del parlamento europeo. Entrambi potrebbero far fruttare i contatti costruiti in anni di carriera per attrarre capitali di natura comunitaria.

In secondo luogo, qualche centinaio di milioni d’euro potrebbero arrivare dalla significativa rappresentanza nobiliare all’interno del comitato promotore, nella persona dei principi Carlo di Borbone delle Due Sicilie e Lillio Sforza Marescotti Ruspoli. Insomma, sui soldi non c’è chiarezza.

Molto più trasparente invece la matrice politica: la Banca del Sud è diventata una delle migliori armi di propaganda elettorale della destra radicale nelle regioni meridionali.

1. continua

(Europa, 4/4/2006)