Il costo della guerra in Iraq

STATI UNITI: 200 miliardi di dollari. E non è finita.

ITALIA: Ci costa cara, l’avventura in Babilonia.

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IL COSTO DELLA GUERRA IN IRAQ/1 – Le cifre che l’amministrazione Bush cerca di nascondere tra un budget e l’altro.

di STEFANO PITRELLI

Sono 200 miliardi di dollari, milione più milione meno. Il costo della guerra in Iraq per i contribuenti americani è una cifra costantemente in crescita. È il prezzo di un conflitto del quale nessuno ancora riesce a prevedere la fine, e che molti americani – come scrive David Brooks sul New York Times – considerano ormai unwinnable, impossibile da vincere. Se per il presidente Bush la condizione di un ritiro corrisponde alla formazione di un esercito nazionale iracheno, ironizza Frank Rich dalle pagine dello stesso quotidiano, «di questo passo i 138 mila soldati americani verranno sostituti da militari iracheni nel giro di un centinaio d’anni». «Vietnamizzazione », la chiama.
Strano destino per quella che i neoconservatori – ricorda l’analista Martin Sieff – avevano propagandato come «una guerra che si sarebbe ripagata da sola» attraverso il petrolio. Eppure l’enormità del costo, in termini economici, non regge il passo con l’attenzione riservata dai media al costo in termini di vite umane, così come è stato riportato alla ribalta dalle proteste di Cindy Sheehan.

Gli americani non sembrano ancora rendersi conto dell’entità della spesa che si sta affrontando, forse perché attentamente mascherata. Staremo a vedere se la convocazione del segretario alla difesa, Donald Rumsfeld, per un’audizione davanti al senato servirà a portare la questione alla luce. Certo è che deputati e senatori sono piuttosto “ansiosi” di saperne di più, su quanto costi questa guerra. Risaliva già ad aprile l’emendamento proposto dal senatore democratico Robert Byrd alla bozza di legge da 81,9 miliardi di dollari in “fondi d’emergenza” (a sostegno degli sforzi in Iraq e Afghanistan, e di altre attività internazionali). Un emendamento col quale i ?rmatari chiedevano a Bush di sottoporre al Congresso entro il 1° settembre le stime dei costi a breve termine delle operazioni militari.

Si capisce il perché di tanta preoccupata curiosità: è di appena metà agosto la notizia che il Congressional Budget Office – il “cane da guardia fiscale” del Congresso     – avrebbe riscontrato per quest’anno un buco di 331 miliardi di dollari.
«Nel corso degli ultimi tre anni, l’amministrazione Bush ha presentato i tre peggiori deficit della storia», accusa il deputato John M. Spratt Jr. dell’House Budget Committee. E la situazione non è destinata a migliorare: stando ai dati del Cbo, il disavanzo sarà destinato a restare al di sopra dei 300 miliardi annui almeno fino al 2010 – ammesso che il costo della guerra in Iraq e in Afghanistan si mantenga sui livelli attuali.

Quanto la guerra incida veramente sul bilancio americano, tuttavia, non è ancora chiaro. La Casa Bianca si giustifica dicendo che quelli sono costi difficili da prevedere. Ma, come ha osservato il senatore Byrd, tenendo i costi della guerra fuori dalle proposte annuali del budget, Bush ha escluso alcuni di quelli dalle stime ufficiali del deficit, offrendo nel complesso «un budget federale profondamente sconclusionato e scombussolato». Sul Nyt Linda Bilmes – docente di finanza pubblica alla Kennedy School of Government della Harvard University – la pone in questi termini: «Il prezzo della guerra è ancora ampiamente celato agli occhi dell’opinione pubblica ».
Ma come si nasconde il prezzo di una guerra? Si sarebbe tentati di dare un’occhiata ai bilanci del Pentagono. Il Center for Arms Control and Non-Proliferation lo passa al setaccio ogni anno. Ma nei 419,3 miliardi richiesti dalla difesa per l’anno fiscale 2006 non sono conteggiati i costi delle operazioni militari in corso in Iraq e in Afghanistan. Quelli si chiamano «pacchetti speciali di spesa supplementare».

Ecco il nome tecnico di una strategia illusionista che si è tradotta – come chiarisce minuziosamente il National Priorities Project (un gruppo di ricerca sostenuto da varie associazioni liberal e progressiste) in quattro richieste supplementari avanzate dall’amministrazione a partire dagli inizi dell’invasione: 54,4 miliardi nell’aprile 2003, 70,6 miliardi nel novembre di quello stesso anno, 21,5 miliardi fatti passare come parte delle appropriazioni regolari del dipartimento della difesa per l’anno fiscale 2005, più i 58 miliardi dell’aprile scorso.

Ma se l’amministrazione Bush «si è guardata bene dal fornire stime del costo totale della guerra in Iraq» – come scrive Spratt nel suo studio Iraq War Cost Estimate: Costs to Date and Costs to Go – il sito dell’Npp (www.costofwar.com) lo tiene costantemente d’occhio: un contatore corre senza tregua verso i 204,6 miliardi entro la ?- ne dell’anno fiscale 2005. Si spingono ancora più in là i conti della Bilmes, che presenta un bilancio complessivo delle due guerre (Iraq e Afghanistan) da qui ai prossimi cinque anni. «La guerra da tre trilioni», la chiama (un trilione sono mille miliardi). «I più grandi costi a lungo termine – spiega – sono i fondi per i soldati rientrati in patria ammalati o disabili». Un prezzo inevitabile «anche se la guerra smettesse domani». Spratt, dal canto suo, offre due scenari possibili concentrandosi esclusivamente sull’Iraq: il primo modellato sulle previsioni di Rumsfeld, secondo le quali l’esercito potrebbe ritirarsi definitivamente entro la fine del 2008; il secondo basato su un simile scenario dipinto dal Cbo, che vedrebbe una riduzione della presenza delle forze armate in Iraq fino a 40mila unità entro il 2010. Nel primo scenario, il costo della guerra aumenterà fino a 461 miliardi, nel secondo fino a 646.
Per il momento, invece, secondo Spratt sono 200 i miliardi spesi dal marzo 2003 agli inizi di quest’anno per la guerra in Iraq, cifra non molto distante da quella espressa dal contatore dell’Npp. Numeri che probabilmente non tengono conto dei tanti “costi collaterali”. Qualche esempio? Frank Rich fa riferimento ai 350 milioni di dollari versati dal Pentagono alla nota agenzia pubblicitaria Leo Burnett per la realizzazione di una campagna d’arruolamento che l’Iraq non lo nomini nemmeno. Oppure ai milioni di dollari – come faceva notare Rita Ciresi su Europa – sborsati attraverso il dipartimento dei reduci alle aziende che producono le lapidi da donare alle famiglie dei caduti. Sono 1800 quelle finora destinatarie di risarcimenti – spiega The New Republic – che arrivano fino a 500 mila dollari.

Tra i costi “collaterali” si potrebbe elencare, inoltre, il «miliardo e quattrocento milioni» addebitato dalla Halliburton in quanto maggiore azienda appaltatrice (ma è la punta dell’iceberg: a giugno l’azienda ha ricevuto due nuovi contratti per 1,75 miliardi). Una somma enorme, contestata punto per punto dal deputato Henry A. Waxman nel suo dossier U.S. Mismanagement of Iraqi Funds. «Che la spiegazione sia nella crassa incompetenza o in una deliberata condotta disonesta, il risultato è lo stesso: stanno truffando i contribuenti».

Ma le grandi cifre non aiutano a capire l’entità della spesa: «Se ogni uomo, donna e bambino dovessero pagare [per questa guerra, ndr] ciascuno di noi sarebbe debitore di 750 dollari – osserva Robert Adler del Boston Globe ». «Penso che mi sentirei meglio – conclude – se quegli stessi soldi fossero spesi per gli insegnanti e per le scuole… per l’assicurazione sanitaria di tutta quella gente che affolla ogni pronto soccorso».

(Europa, 1/9/2005)

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IL COSTO DELLA GUERRA IN IRAQ/2 – Il governo ha attinto all’8 per mille per finanziare il nostro contingente. / Non solo le vittime di Nassiriya. È di 1,3 miliardi il prezzo che l’Italia ha pagato finora per stare nel Golfo. Trascurando la cooperazione allo sviluppo.

di GIANNI DEL VECCHIO

Le cifre parlano chiaro. Non c’è bisogno di aggettivi o avverbi. Finora la missione in Iraq è costata agli italiani un miliardo e trecento milioni di euro. Di questi soldi, la gran parte è andata a finanziare le operazioni militari tout court (circa 1,21 miliardi) mentre solamente le briciole (90 milioni di euro) sono andate per interventi umanitari e di ricostruzione. Se poi proviamo ad analizzare la composizione dei fondi destinati al funzionamento della macchina bellica, ci accorgiamo che più della metà di questi vengono assorbiti dal pagamento del personale, ovvero di quei 3252 uomini che – in via diretta o indiretta – sono tuttora presenti nel Golfo. Un buon 25 per cento, inoltre, viene impiegato per comprare nuove armi, mentre la parte restante è destinata a soddisfare tutte le altre spese necessarie per il mantenimento della missione.

Dal giugno 2003 il parlamento ha già approvato cinque finanziamenti per “Antica Babilonia”. Sulla base delle cifre fornite da Palazzo Chigi, si è partiti con poco più di 230 milioni di euro (nel secondo semestre 2003) per poi scendere a meno di 200 milioni per i primi sei mesi del 2004. Nel secondo semestre dello scorso anno si è risaliti a 290 milioni. Quest’anno, invece, fino a giugno sono stati stanziati 292 milioni, mentre meno di 240 milioni sono stati destinati al secondo semestre. Si capisce, insomma, come la presenza italiana in territorio iracheno costi mediamente 500 milioni di euro all’anno, spalmati da parte dell’esecutivo in due diversi decreti.

Recentemente si è appurato che una parte della copertura di tali finanziamenti deriva dalla gestione statale dei fondi dell’otto per mille del gettito Irpef. La stessa presidenza del consiglio ha reso noto come quasi l’80 per cento di tali risorse – che nel 2004 si aggiravano intorno ai 100 milioni di euro – vengano utilizzate per mantenere le missioni militari italiane all’estero.

Contravvenendo, in questo modo, alla legge 222 del 1985 (istitutiva dell’otto per mille), secondo la quale, ex articolo 48, le somme destinate allo stato devono essere utilizzate «per interventi straordinari per la fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati e conservazione dei beni culturali». Oggi, invece, agli interventi per la fame nel mondo viene destinato lo 0,9 per cento delle risorse; ai rifugiati lo 0,6 per cento; ai beni culturali il 13,8; alle calamità naturali il 5.

Tutto il resto (come già detto, quasi l’80 per cento) alle missioni e alle spese militari. In aperta violazione della legge statale. Cosa che ha fatto andare su tutte le furie Giulio Marcon, portavoce della campagna Sbilanciamoci, sostenuta da una sostanziosa fetta del non profit e del volontariato italiano. «I soldi degli italiani – sottolinea Marcon – sono utilizzati per finalità diverse da quelle previste dalla legge. La volontà dei contribuenti non è rispettata ed è palesemente ingannata.

Il trucco contabile utilizzato dal governo e dal parlamento è quello di ridurre, in ogni legge finanziaria, il fondo dell’otto per mille, stornandone una parte per esigenze di fi- nanza pubblica. In questo caso lo storno è stato di 80 milioni di euro per le missioni militari, che non si sarebbero potute finanziare seguendo la lettera della legge 222».
Il miliardo e trecento milioni spesi in Iraq non sono stati completamente avulsi dal mix di politica economica adottato in questi anni dal governo. Anzi. Al lievitare delle spese belliche è corrisposta una contestuale riduzione dei fondi destinati alla cooperazione per lo sviluppo dei paesi più poveri. La Finanziaria 2005, ad esempio, ha previsto tagli ingenti alla Direzione generale cooperazione e sviluppo, braccio operativo del ministero degli esteri. Gli sono stati assegnati 616 milioni di euro, che rappresentano solo il 44 per cento dei fondi necessari alla Direzione per garantire gli impegni internazionali (stimati in 1,4 miliardi di euro). Se si considera poi l’Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) – ovvero il contributo della cooperazione italiana – in relazione al pil, la situazione prende tinte più fosche. Secondo Sbilanciamoci, il rapporto Aps/pil per i quattro anni tra il 2000 e il 2003 è stato rispettivamente 0,13, 0,15, 0,20 e 0,17. Livelli molto lontani dagli impegni presi dal governo italiano al Consiglio europeo di Barcellona del 2002, in base ai quali l’attuale maggioranza avrebbe dovuto raggiungere il livello minimo dello 0,33 entro il 2006. Secondo le stime del ministero degli esteri, in termini di risorse il traguardo dello 0,33 per cento corrisponde a poco più di 5 miliardi di dollari, con un aumento di circa il 110 per cento rispetto all’ammontare erogato nel 2003. Ma anche lo 0,33 è lontano anni luce dalle promesse del premier Berlusconi, che nel gennaio 2002 aveva indicato il raggiungimento dell’1 per cento, più della quota dello 0,7 consigliata dalle Nazioni Unite. Insomma, l’Italia ha provveduto sempre meno ai suoi obblighi di cooperazione internazionale.

Altri tagli di cui si è reso protagonista l’esecutivo in questi anni coinvolgono il fondo delle politiche sociali, e in particolare la parte che di solito viene trasferita alle regioni.
La finanziaria del 2005 ha destinato per le regioni e per la rete dei servizi sociali circa 550 milioni di euro, che confrontati con il finanziamento dell’anno 2004 (un miliardo di euro) corrispondono ad un taglio dei trasferimenti molto vicino al 50 per cento. In realtà, il ministro del welfare Maroni si è impegnato personalmente a trovare il resto dei soldi nei prossimi mesi. «Ma è pur sempre solo la parola di Maroni – sottolinea Emiliano Monteverde, responsabile nazionale delle politiche sociali dei Ds – per quanto rispettabile che sia. Non c’è niente di scritto, sono fondi non coperti dalla Finanziaria. E il fatto che il prossimo sia un anno elettorale non mi aiuta ad essere ottimista sulle promesse fatte dal governo».

(Europa, 2/9/2005)