update / Il Déjà Vu del Riformista, 1

Dove il quotidiano arancione ripercorre ad una ad una le tappe della nostra inchiesta sulla mancata apertura degli archivi di Bad Arolsen. 

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di PAOLO SOLDINI

Il governo di Roma, anzi il ministero degli Esteri, deve una spiegazione ai sopravvissuti italiani dei campi di sterminio nazisti, agli ebrei e ai prigionieri, civili e militari, che furono costretti ai lavori forzati nelle officine del Terzo Reich, a quanti ebbero un figlio, un padre, un marito scomparsi nella Germania di Hitler. E sarebbe bene che questa risposta arrivasse presto, perché ha tardato già troppo, autorizzando sospetti che sarebbe stato bene, invece, spazzare via subito.

La questione, nei suoi termini essenziali, è la seguente: ormai praticamente da solo, il governo italiano sta boicottando l’apertura dell’archivio di Bad Arolsen. In quell’archivio si trovano le prove necessarie a ricostruire esattamente le presenze ad Auschwitz e negli altri campi di sterminio, nei campi di concentramento e nelle fabbriche, come quella sotterranea di Dora Mittelbau, in cui gli ebrei, i prigionieri di guerra e molti internati italiani lavorarono come schiavi, fino alla morte, alla costruzione delle V2. Dalle carte è possibile ricostruire la sorte dei bambini che furono strappati ai genitori, dei beni che furono sequestrati agli ebrei, delle persone che, alla fine della guerra, non tornarono a casa dalla prigionia nel Reich e le cui tracce si persero nel nulla. Ma per l’Italia tutto ciò pare non avere alcun valore.

Perché questa indifferenza? C’è qualcuno o qualcosa da coprire? Forse, come sostengono diversi storici anglosassoni, la memoria della Santa Sede che, nei mesi e negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, aiutò un gran numero di nazisti ricercati a fuggire in Sud America? O qualche interesse economico di peso? Giorni fa, riferendo su una class action intentata da un gruppo di ebrei americani di origine europea, la stampa americana ha adombrato la possibilità che il boicottaggio italiano risponda agli interessi delle Assicurazioni Generali. Oppure qualche altro, inconfessabile, segreto? Vedremo. Intanto cerchiamo di mettere ordine in una storia che è, di suo, abbastanza complicata.

 A Bad Arolsen, cittadina di 16 mila abitanti dell’Assia, a nord di Kassel, oltre al castello dei principi di Waldeck e Pyrmont che ne fa una della capitali del barocco tedesco, ci sono 27,5 chilometri di gallerie sotterranee riempite di carte. Sono 50 milioni di documenti dell’International Tracing Service (ITS) che riguardano circa 17 milioni di persone. La vicenda dell’ITS nasce, a guerra ancora in corso, per iniziativa di americani e britannici con lo scopo di facilitare il ritrovamento dei non tedeschi scomparsi nel Terzo Reich e nei territori occupati dalla Germania. Alla fine delle ostilità, l’archivio viene arricchito con tutti i documenti sequestrati ai tedeschi e riguardanti gli stranieri caduti, in un modo o nell’altro, sotto il controllo delle autorità del Reich. Una fonte preziosissima, all’inizio, nei disordinati anni del dopoguerra, per rintracciare le persone scomparse, e poi per ricostruire la storia delle persecuzioni compiute dai nazisti in patria e nelle zone occupate. E, da un po’ di tempo a questa parte, per offrire prove certe ai tribunali che giudicano sulle richieste di risarcimento degli ebrei espropriati dei loro beni dai nazisti o costretti al lavoro coatto. Nel 1955, sulla base di un complicato accordo sottoscritto a Bonn, l’archivio di Bad Arolsen viene affidato alla Croce Rossa, la quale deve però rispondere a una sorta di “consiglio di amministrazione” composto da dieci paesi: Belgio, Francia, Grecia, Israele, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Regno Unito, Repubblica federale di Germania e Usa. Più tardi si aggiungerà anche la Polonia. Undici paesi, dunque. Di questi undici due, Israele e gli Stati Uniti sono, fin dal primo momento, favorevoli all’apertura dell’archivio. Gli altri, man mano, adottano la stessa posizione. Nell’aprile del 2006 tocca alla Germania, il paese che fino a quel momento era stato il più restìo. A tutt’oggi i paesi che non hanno dato il proprio assenso sono solo 4. Ma tre di questi quattro, Francia, Grecia e Lussemburgo, assicurano che entro la fine dell’anno il loro sì arriverà. Il quarto continua a fare orecchie da mercante. Indovinato chi è?

Nonostante tutte le sollecitazioni, particolarmente pressanti quelle israeliane, il ministero della Difesa, cui fino all’anno scorso ha fatto capo, per motivi misteriosi, il “posto” italiano nel “consiglio degli Undici”, si è rifiutato di segnalare il proprio assenso alla apertura dell’archivio con l’”argomento” secondo il quale «non si poteva far torto alla Germania, considerato che in quel paese vigono norme assai restrittive in materia di difesa della privacy». Questo sostenne, ad esempio, il tenente colonnello Sandro Tortora a nome dell’allora ministro della Difesa del governo Berlusconi Antonio Martino cui, sull’argomento, il Sindaco di Roma aveva inviato una lettera su sollecitazione della comunità ebraica. L’”argomento”, ammesso che lo si potesse ritenere tale, è comunque caduto nell’aprile del 2006, quando la ministra federale della Giustizia Brigitte Zypries ha segnalato che non solo la Germania non opponeva più obiezioni legate alla tutela della privacy, ma invitava il governo italiano a fare altrettanto. Intanto, con la formazione del governo Prodi, la competenza italiana su Bad Arolsen passava dal ministero della Difesa a quello degli Esteri, diretto da Massimo D’Alema. Ma non cambiava nulla

 A quanto ci risulta, dall’anno scorso, il presidente della commissione esteri del Senato Usa Joseph Bidden ha chiesto spiegazioni a più riprese all’ambasciatore italiano a Washington. Altrettanto hanno certamente fatto gli israeliani e le pressioni tedesche sono state tali che nel luglio dell’anno scorso l’ambasciatore italiano a Berlino Antonio Puri Purini ha addirittura firmato gli emendamenti all’accordo del 1955 che prevedono l’apertura dell’archivio. Come se non l’avesse mai fatto. La posizione del governo italiano non è mutata e la firma dell’ambasciatore è stata, di fatto, considerata nulla (cosa che, immaginiamo, non gli ha fatto piacere). Morale: per quanto riguarda l’Italia, e gli italiani, Bad Arolsen è ancora tabù. Ma perché? Che mistero c’è sotto? Vediamo le diverse ipotesi.

 1) Dossier Assicurazioni Generali. La grande società triestina, dal 1918 in poi, attuò una forte politica di espansione nei paesi dell’est europeo, dove erano presenti consistenti comunità ebraiche. Quando scoppiò la guerra, tutte le assicurazioni sulla vita stipulate nei paesi via via occupati dai tedeschi furono incamerate nelle finanze del gruppo. Quando negli Usa cominciarono le cosiddette class actions (procedimenti giudiziari collettivi) per i risarcimenti, le Generali furono, ovviamente, citate in giudizio. Il gruppo si difese sostenendo che con l’avvento dei comunisti nei paesi orientali, le documentazioni relative alle polizze erano state distrutte. L’apertura dell’archivio di Bad Arolsen potrebbe, in effetti, permettere ad avvocati e tribunali di ricostruire almeno parti delle documentazioni su cui basare le richieste di risarcimento, cosa che avrebbe effetti molto pesanti, ovviamente, sulle finanze del gruppo. A Trieste però sottolineano la vicinanza storica delle Assicurazioni al mondo ebraico e, soprattutto, fanno notare che furono gli stessi avvocati del gruppo a chiedere, nel processo americano, il rinvio di un anno della scadenza per le richieste di rimborso proprio per dare agli interessati la possibilità di usufruire delle carte di Bad Arolsen. Potrebbe, è vero, trattarsi di una manovra dilatoria, motivata dalla paura che il tribunale,d’accordo con le autorità Usa, decreti comunque la consultabilità dell’archivio. Ma la difesa ha una sua logica.

2) Ipotesi Vaticano. Gli storici americani che hanno a che fare con l’archivio hanno scoperto che tra le carte ci sarebbero prove certe della filière criminali nazisti – Santa Sede in almeno un caso, quello del vescovo rumeno Valerian Trifa, membro delle Guardie di Ferro e corresponsabile del pogrom di Bucarest del ’41. Trifa fu nascosto in Vaticano e poi aiutato a fuggire negli Usa. Ma i sospetti, come si sa, sono tanti ed esistono anche diverse prove. E’ pensabile che la Santa Sede abbia esercitato in passato pressioni sul governo italiano per evitare che dalla pubblicizzazione delle carte emergesse la reale dimensione del traffico?

3) Coinvolgimento italiano nell’Olocausto. Una terza ipotesi riguarda l’eventualità che le carte contengano prove di un coinvolgimento degli italiani nei piani di sterminio nazisti ben più ampio e impegnativo di quanto si sia accertato dagli studi sulla Repubblica di Salò, sulle retate compiute dalle camicie nere per conto dei tedeschi, su Fossoli e gli altri “campi di transito” e sui piani del gruppo dirigente fascista di eliminazione del «cancro giudaico» già venuti alla luce. Tra le carte di Bad Arolsen figurano certamente, per esempio, i nomi e il numero degli emigranti italiani (emigranti volontari, non prigionieri o militari internati) che parteciparono ai lavori per costruire la fabbrica di Buna- Monowitz, dove si utilizzavano come schiavi i detenuti di Auschwitz. E’ possibile che nelle carte ci sia la prova che maestranze italiane, come alcuni ritengono, abbiano lavorato anche alla costruzione delle camere a gas? O che nelle “matricole” degli ebrei che arrivavano nei campi di sterminio figurino i nomi di insospettabili (o almeno insospettati) funzionari dell’amministrazione pubblica italiana, che magari hanno continuato indisturbati la loro carriera “dopo”? Dubbi, dubbi. Ma non c’è che un modo per dissiparli. Il ministro D’Alema, dia disposizione che anche l’Italia accetti l’apertura dell’archivio di Bad Arolsen.

(Il Riformista, 8/8/2007)