La banda del cavo

ATTUALITA’ : SOCIETÀ PUBBLICHE – LO SCANDALO DEL DIGITAL DIVIDE / Prima ha speso in stipendi e consulenze. Poi ha portato la fibra ottica dove già c’era. Gli sprechi di Infratel, creatura dell’ex ministro Maurizio Gasparri, nel mirino della Corte dei Conti.

A 56 kappa oggi non vai più da nessuna parte. Ma questa è l’Italia a due velocità, il Paese del terziario avanzato dove i diseredati dell’Adsl restano ciechi, muti e sordi. Nel 2003 Maurizio Gasparri, da ministro delle Comunicazioni del governo delle tre ‘I’ (Internet, Inglese, Impresa), aveva provato a ridurre il “digital divide”. “Estendere le opportunità d’accesso alla banda larga in tutte le aree sottoutilizzate del Paese”, ecco l’idea di partenza, che si traduceva nell’andare a collegare le zone che gli operatori privati non hanno convenienza a coprire. Ma i suoi sforzi si sono tradotti nell’ennesimo caso di sprechi, clientelismo e inefficienza. Una storia che porta il nome di Infratel Italia, società pubblica che nei primi due anni di vita ha fatto tanti progetti, ma non ha posato neanche un cavo. Soldi però ne ha spesi a ruota libera, in stipendi e consulenze.
Infratel viene tenuta a battesimo nel dicembre 2003 da Gasparri. La società nasce da una convenzione fra il suo dicastero e la finanziaria d’Investimenti pubblica Sviluppo Italia, che ne detiene la quasi totalità delle azioni (99 per cento). E ovviamente viene creata a immagine e somiglianza del ministro. Il colonnello di Alleanza nazionale piazza tutti i suoi uomini più fidati nelle principali posizioni di potere, presidiando in modo feudale oltre metà del consiglio di amministrazione. A partire dalla nomina a presidente di Francesco Chirichigno, suo consulente, passando per Gianluca Petrillo, altro consigliere personale, Giuseppe Del Villano, dirigente del ministero, e Mario Fiorentino, vicecapo di gabinetto. Poi ci sono un posto riservato a Marco Staderini dell’Udc, e un paio di poltrone per Massimo Caputi e Bruno Giancaterino di Sviluppo Italia.
Mano pesante anche sul comitato d’indirizzo, organo in teoria indipendente. Ma in un evidente conflitto d’interessi tra controllore e controllato, su queste poltrone finiscono altri due dirigenti di Sviluppo Italia, Amadio Salvi e Francesco Scalia, e tre dirigenti del ministero. Varata la nave, a Chirichigno non pare vero di poter finalmente tornare al suo vecchio amore, le telecomunicazioni. Dal 1994 al 1997 era stato amministratore delegato di Telecom Italia, per poi andarsene sbattendo la porta dopo essersi visto bocciare il progetto ‘Socrate’. Da un progetto di banda larga all’altro. Peccato che l’ex boss Telecom non si rassegni al fatto di essere stato messo a capo di una società che invece di inseguire le logiche di mercato dovrebbe andare a intervenire là dove il mercato fallisce. Chirichigno inizia col regalarsi uno stipendio da manager di grande azienda, che una fonte interna a Infratel ci rivela librarsi intorno ai 450 mila euro l’anno. Invece di concentrarsi sull’indispensabile, Infratel dedica tempo e risorse a progetti finanziati dalle singole regioni, che finiscono per andare a creare reti metropolitane (le cosiddette Man, Metropolitan Area Network) in zone dove altri operatori sono già presenti. E questo nonostante la dote di partenza sia un finanziamento Cipe di circa 300 milioni di euro, somma che di per sé non bastava neanche a coprire il digital divide nel Mezzogiorno, compito primario di Infratel.
Il fenomeno del duplicamento viene confermato da Paola Manacorda, del Comitato interministeriale Banda Larga: “Quest’anno ci si è resi conto che sulla banda larga non si poteva andare in ordine sparso, perché quando non c’è un raccordo si vanno a fare doppioni. E’ usccesso soprattutto in Puglia, dove ormai c’è una copertura molto alta, alla quale però non corrisponde un adeguato utilizzo della broadband”. In passato, continua Manacorda, gli interventi di Infratel sono stati fatti “a prescindere da ciò che c’era già sul terreno, quando invece il senso è quello di andare a fare operazioni di rammendo solo dove il digital divide è conclamato”.
Ora, un faro sulla gestione Gasparri-Chirichigno è stato acceso dala Corte dei Conti. In una relazione dello scorso ottobre, la magistratura contabile mette a nudo tutte le storture. A cominciare dal fatto che per quasi due anni, dal marzo 2004 al dicembre 2005, tutti i soldi spesi da Infratel sono andati a manager, dipendenti e consulenti. I compensi per i dirigenti, poi, (circa 2 milioni di euro in tutto) sono stati distribuiti in modo forfettario, ossia senza rendicontazione precisa. Si tratta di tariffe giornaliere, che vanno da un minimo di 500 a un massimo di 1.200 euro, al netto delle spese di viaggio e di soggiorno. Diarie mostruose, pagate con denaro pubblico. Ma la denuncia della Corte dei Conti non finisce qui. C’è anche il capitolo consulenze, che nell’era Chirichigno ammontano a più di 700 mila euro. Ma più che sull’entità della cifra, la Corte si concentra sulle procedura di scelta, arrivando a dire che gli incarichi esterni vengono “tutti conferiti intuitu personae”, e cioè assegnati senza “obiettivi criteri di scelta”. Essenziali, visto che si tratta di una società pubblica. Quello disegnato dai magistrati contabili è un quadro a tinte fosche. Lo stesso che si ritrova davanti Mario Landolfi, quando nella primavera del 2005 sostituisce Gasparri. I rapporti con Chirichigno si fanno subito tesi e portano il neo ministro ad accantonare l’ex dirigente Telecom, nominando nuovi vertici. Ma è solo il primo passo: l’attuale presidente della Vigilanza Rai capisce dove si trova la falla, e a modo suo cerca di ripararla. Prima di tutto cancella i forfait per i manager. Poi però chiude anche i rubinetti del Ministero, bloccando gran parte dei soldi già stanziati in bilancio: secondo le stime della Corte dei Conti, nel 2005-2006 Infratel ha potuto ricevere solo il 15 per cento delle risorse che in teoria le spettavano.
Ma se la stretta di Landolfi ha posto un freno alla disinvolta gestione dell’era gasparriana, in pratica ha strozzato lo sviluppo della società, che intanto nel 2006 aveva iniziato a posare cavi e costruire reti. Lo si legge fra cifre e tabelle nell’allarmata relazione del collegio sindacale di Infratel, in occasione dell’approvazione del bilancio 2006. I sindaci parlano di situazione finanziaria “preoccupante”: un debito di 40 milioni con le aziende fornitrici e un credito di 29 milioni con un Ministero che non intende sborsare. È un’impasse che crea “gravi difficoltà nella gestione dell’azienda”, e viene segnalata anche dalla Deloitte, che ha certificato il bilancio. Non sorprende quindi, vista la sua storia e il dilatarsi dei tempi burocratici per i permessi, che Infratel sia in ritardo sulla tabella di marcia per la realizzazione delle sue infrastrutture. L’analisi della Corte è impietosa: al 31 dicembre 2006 è stato realizzato soltanto un terzo delle opere previste. In particolare, l’indice di copertura della banda larga nei comuni è risultato del 23 per cento, mentre la copertura in fibra ottica delle centrali telefoniche non ha superato il 20 per cento.
Una sorte ben triste per quello che era fondamentalmente un innovativo strumento di welfare. Infratel andava a coprire necessità reali, come quelle sentite dai paesini di montagna, dalle zone rurali e dalle isole grandi e piccole, dove certamente si punta anche su Internet per lottare contro il progressivo spopolamento. Eppure già dal principio si era partiti con il piede sbagliato: dal presupposto, o peggio dal pregiudizio, che il digital divide fosse circoscritto al Sud, limitando perciò il raggio d’azione dell’azienda. Che così non fosse lo dimostrano gli attuali circa due milioni di esclusi fra Piemonte, Lombardia e Veneto. Esclusi che spesso si organizzano in comitati, come quello A Banda Stretta, formato da abitanti e aziende della provincia di Torino che lamentano lo stato di cittadini digitali di serie B. Tuttavia, visti gli sprechi, questo pregiudizio non sarebbe stato che il minore fra i peccati originali della società pubblica nata dalla fantasia di Alleanza nazionale.
Dopo un inizio così disastroso, oggi pare che qualcosa stia cambiando dalle parti di Infratel. Nel giugno scorso il consiglio d’amministrazione, completamente rinnovato, è anche dimagrito da sette a tre componenti, dimezzando così il costo: dagli 80 mila euro l’anno in gettoni di presenza di gasparriana memoria, ai 40 mila attuali. Inoltre si lavora per invertire la rotta e tornare a ciò che c’era di buono nell’idea originaria. Ovviamente non sono sparite le consulenze, ma almeno i nomi e i compensi dei fortunati sono disponibili sul sito Internet della società. Tramonta poi il rischio di realizzare infrastrutture-doppioni: niente più accordi con singole regioni, ma un piano nazionale coordinato dal Ministero. A ridare un po’ di fiato alle casse dell’azienda arriva ora la Finanziaria 2008, che stanzia 50 milioni per la riduzione del digital divide su tutto il suolo nazionale. Dal profondo Sud al profondo Nord. Mai troppo presto per il pastore di quella vecchia pubblicità che voleva vendere i propri formaggi via Internet. E si chiedeva: “Chi sarà lo scemo del villaggio globale?”.

(L’Espresso, 10/1/2008)